Malattia di Fabry, la storia di Mariella e dei suoi tre figli

La famiglia vive in Emilia Romagna, una delle sei Regioni dove ancora non è possibile effettuare la terapia enzimatica sostitutiva a domicilio, e ciò è causa di diversi disagi

Cervia (Ravenna) – Mariella ha 50 anni, e i suoi figli, due maschi e una femmina, ne hanno 22, 21 e 16. Come è possibile che fino a sei anni fa nessuno di loro sapesse di essere affetto da una rara condizione genetica? La risposta sta nel fatto che la malattia di Fabry è una patologia subdola, e i suoi sintomi non specifici possono essere facilmente confusi con quelli di tanti altri disturbi. La famiglia ha ottenuto una diagnosi solo nel 2014, all’ospedale di Ravenna. “Io fino a quel momento non avevo mai avuto sintomi, e non sapevo nulla della malattia di Fabry e delle sue possibili complicazioni”, racconta la donna.

“Tutto è nato da un accertamento sul minore dei miei figli, che in seconda elementare aveva dei problemi di linguaggio e confondeva le parole. In seguito a un ricovero in ospedale, e una volta ottenuta la diagnosi di malattia di Fabry, l’indagine si è estesa a tutta la famiglia: io e i miei figli siamo risultati affetti, al contrario di mio marito e dei miei genitori”, sottolinea. Da quel momento, Mariella e i due figli maschi, non essendo compatibili con la terapia orale (il migalastat) hanno iniziato la terapia enzimatica sostitutiva (ERT) a base dell’enzima mancante, l’alfa galattosidasi, che per la primogenita non si è resa invece necessaria.

In questi anni la malattia si è manifestata in modo diverso fra i membri della famiglia: il secondogenito a volte ha dei bruciori alle mani e dei leggeri dolori che tuttavia non gli impediscono di svolgere un’attività sportiva. Il terzogenito ha frequenti dolori muscolari ed è spesso stanco. Entrambi, inoltre, hanno degli angiocheratomi (formazioni tumorali benigne simili a puntini rossi o piccole bolle) sui palmi delle mani, sul petto e nell’area genitale. Mariella, invece, ha sofferto di depressione e ha frequentemente mal di testa, nausea, vomito, dolori muscolari e stanchezza cronica.

Anche sul posto di lavoro sono iniziati i problemi: la donna, dipendente statale, è apparentemente sana, eppure le sue assenze sono frequenti, almeno 26 giorni in un anno solo per le infusioni, senza contare le visite di controllo. Assenze che per i datori di lavoro, di Mariella e dei suoi figli, non sono ammissibili, considerato che la patologia non viene riconosciuta per accedere alla legge 104. La donna, anni fa, per questo motivo rischiò il posto di lavoro: la causa finì in tribunale, dove il giudice fortunatamente le diede ragione. “Non sono più attiva ed energica come prima: vorrei fare più cose, ma mi manca la forza nelle mani, e il pomeriggio devo riposare”, prosegue Mariella, che ha trovato supporto nell’Associazione Italiana Anderson-Fabry (AIAF Onlus).

Il problema principale è che le infusioni di terapia enzimatica sostitutiva, due volte al mese, devono essere fatte in ospedale; attualmente, infatti, il trattamento viene erogato a domicilio in tutta Italia, tranne che in sei Regioni: Piemonte, Trentino Alto Adige, Toscana, Umbria, Marche e appunto Emilia Romagna. “Questo ci ha causato diverse difficoltà, perché nel corso degli anni abbiamo dovuto recarci in vari Centri, prima a Bologna, poi a Ravenna, a Faenza e ora a Cervia, ma comunque lontano da casa nostra. Il luogo dove facciamo la terapia non è idoneo, e il personale sanitario non è specializzato; dopo il trattamento di solito ci viene mal di testa e sonnolenza, quindi non possiamo guidare e abbiamo sempre bisogno di qualcuno che ci venga a prendere; inoltre, spesso le date di somministrazione tra di noi non coincidono. A volte abbiamo dovuto saltare la terapia perché avevamo la macchina dal meccanico o per altri imprevisti. Insomma, tutto sarebbe più semplice se potessimo fare le infusioni a domicilio”, conclude Mariella.

Come è stato dimostrato da diversi studi, la terapia domiciliare per le malattie da accumulo lisosomiale è preferibile per molti motivi: la migliore qualità di vita dei pazienti e delle famiglie, la compliance totale, la sostanziale assenza di eventi avversi e il risparmio economico. Da tempo le associazioni dei pazienti si stanno battendo per uniformare questo diritto su tutto il territorio nazionale: l’ultima iniziativa, nell’agosto scorso, è stata la consegna di un dossier al Ministro della Salute.

Francesco Fuggetta

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